Nigel Owens, un uomo coraggioso

di Sabrina 22 aprile 2013
Nigel Owens

Nigel Owens

L’arbitro che mise le cose in chiaro con l’ormai famosissimo “This is no soccer”, per il quale dovrebbe essere immortalato con tanto di statua al centro di una piazza. Ecco il primo dei video che vi propongo per ricordare la sua figura, oltremodo significativi della sua personalità.

Ma se gli venisse dedicato un monumento ne sarei contenta soprattutto per un altro motivo. Unico fischietto gallese designato dei Mondiali di Rugby del 2007, si decise, in quell’occasione, al grande salto pubblico: in un’intervista a Wales on Sunday fece coming out rivelando la sua omosessualità. Un’intervista a cuore aperto per togliersi l’ultimo sassolino fastidioso dopo che anni prima aveva svelato la sua condizione alla famiglia.

Nigel, l’arbitro gay che ha spiazzato lo sport più maschio, è un uomo che merita rispetto; a parer mio la sua forza è lontana anni luce dalle atmosfere che si respirano nel nostro Paese, purtroppo, dove sarebbe stato oggetto di pesanti critiche.

Owens nacque in un paesino gallese dal nome impronunciabile (Mynyddcerring) nei pressi di Llanelli dove il rugby si serve a tavola con la mostarda. La sua carriera nel mondo del rugby, dove tutto sembra così maschio, lui l’ha raccontata anche in un libro “Half in time” in cui spiega senza mezzi termini di aver vissuto a lungo in una bugia. Ma è innegabile che con il suo coming out sia riuscito a mostrare l’altra faccia di questo sport dove i tabù sono sempre meno, basti pensare alle divertenti squadre formate solo da omosessuali ed alle sfide senza veli tra neozelandesi e sudafricani che si ripetono ormai da tempo.

Con tutto ciò non vuol dire che la sua scelta non abbia significato sofferenza, ma ha avuto coraggio, sì, il coraggio che nasce dalle paure e dal dolore. Nell’apertura della sua autobiografia racconta della sua caduta nelle profondità della depressione, parole che fanno meditare e rabbrividire.

Nell’aprile del 1996, alle tre e mezza del mattino, Nigel esce di casa lasciando un biglietto ai propri genitori spiegando loro che era giunto al capolinea della sua vita. Soffre di bulimia, la sua autostima è pari a zero, si vergogna di essere omosessuale, non vuole esserlo e non vuole che si sappia. Così quella mattina va fino alla cima del monte Bancyddraenen che domina il villaggio dove ha vissuto tutta la vita e inghiotte un flacone di sonniferi; ha anche un fucile con sè nel caso in cui le pillole non funzionino. La sua vita, però, non è giunta al capolinea come crede: ha la fortuna di essere trovato in tempo e condotto in ospedale.

Non dimenticherò mai – dice – mia madre e mio padre che piangevano quando giunsero in ospedale. Sei il nostro unico figlio, mi disse mia madre, se farai di nuovo una cosa del genere dovrai prendere anche noi due con te. In quel momento capii l’enormità del mio gesto. I mesi seguenti furono difficili, dovetti confrontarmi con l’imbarazzo e la vergogna di ciò che avevo fatto e del perchè l’avessi fatto, ma la mia famiglia ed i miei amici furono di grande aiuto, come la maggior parte delle persone. Sono stato molto, molto fortunato. Ho avuto una seconda possibilità.”

 

Troppo spesso non ci soffermiamo a pensare che l’omosessualità non è una questione di come si fa  sesso, bensì una questione di sentimenti. L’omosessualità non è un reato, un’aberrazione, non è andare contro natura. Le vere colpe sono ben altro. Colpevole e perverso è colui che non rispetta la dignità di un altro essere vivente, chi uccide, chi stupra; colpevole e degno di essere punito è colui che, detenendo il potere, lo usa portando un popolo alla rovina o calpestando qualsiasi diritto umano. Il diritto alla serenità, all’appagamento, non dimentichiamolo, è un diritto insindacabile.

Chi ha visto Murdock?

di Sabrina 26 ottobre 2012

Keith Murdock, All Black n. 686. Pilone. Una delle figure più controverse, enigmatiche e tragiche della storia del rugby. Un uomo introverso, problematico, non avvezzo alle regole, il cui fisico imponente – 110 kg – in un’epoca in cui anche i rugbisti non erano avvezzi a sessioni di pesistica, ne faceva un potente uomo di mischia sebbene estremamente mobile.

Keith Murdock

L’uomo che nel 1972 durante il tour degli All Blacks in Gran Bretagna realizzò la meta decisiva contro il Galles all’Arm Parks di Cardiff portando i Tuttineri al successo. Ma lui, uomo tutto d’un pezzo, non regalò neppure un sorriso anche in quell’occasione e forse, con il senno di poi, dietro questa apparente stoicità risiede tutta la sua tragedia.

Proprio la sera di quel lontano 1972, la sua vita subì una drastica svolta. Durante una festa ad alto tasso alcolico all’Angel Hotel fu coinvolto in una rissa: due giorni dopo venne espulso dal tour e dalla squadra. Per sempre. Privato anche del simbolo della felce sulla giacca, Murdock prese l’aereo per tornare in Nuova Zelanda, ma non tornò mai più in patria. Sbarcò a Singapore e da lì raggiunse l’Australia dove sparì  nel bush australiano.

Orgoglioso. Offeso. Umiliato.

Murdock – All Blacks 686

Non lasciò mai traccia di sé se non qualche sporadica e breve notizia, mai certa. Non presenziò neppure al funerale della madre alla quale era legatissimo. Il resto della sua vita, dopo il triste episodio, è avvolto nell’oscurità. L’ultima notizia che si ha di Murdock riguarda l’omicidio di un giovane aborigeno per la quale Murdock è stato chiamato a testimoniare, ma il caso non è stato ancora risolto.

Non posso credere che la sua esplusione dalla mitica squadra dei Tuttineri possa essere l’unico motivo di una scelta così drastica e tragica. Mi chiedo invece, con profonda tristezza, cosa sia scattato dentro di lui per agire in tal modo. Quanto disagio, sofferenza, ribellione covavano in lui? Ho la certezza che quell’episodio sia stato come l’ultimo colpo inferto alla sottile barriera che lo separava da un futuro incerto ed oscuro in attesa da tempo o forse a quel punto della sua vita ha scelto di percorrere una strada che solo lui vedeva e che lo liberava da un fardello troppo gravoso che Murdock non riusciva più a sopportare.

Ci sono momenti nella vita di ognuno in cui siamo obbigati a scegliere; momenti di enorme dolore in cui basta una piccola azione, una parola per cambiare il corso della nostra esistenza, nel bene o nel male. Perché in un battito di ciglia sono racchiuse infinite possibilità, mille futuri, mille noi diversi.

Ci sono sofferenze delle quali solo noi conosciamo l’entità, che solo noi abbiamo il diritto di gestire. Ma ci sono anche la solitudine ed i fantasmi di un passato che solo noi conosciamo. Il bisogno di sparire di Keith Murdock, di rendersi invisibile agli occhi del mondo pur continuando ad esistere in mezzo a miliardi di esseri umani, è come annientarsi,  un gesto dettato dal dolore per autoinfliggersi una sofferenza eterna… oppure darsi una possibilità di rinascita.

Non lo sapremo mai perché lui non ci racconterà mai la sua storia, non ne ha bisogno. E quando, alla fine, se ne andrà veramente da questo mondo anche allora non lo sapremo mai. Le tracce che lascerà del suo passaggio sulla Terra saranno le impronte di un potente uomo di mischia che si allontana verso un futuro sfocato ed ignoto. Solo.

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