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Una spinta per Kathrine Switzer, la prima donna a correre la Boston Marathon

di Sabrina 18 marzo 2012

La storia di Kathrine Switzer la maratoneta che, come Dorando Pietri, divenne famosa per una spinta.

Una spinta per andare avanti

Spinta nel senso di raccomandazione? No. Qui di si tratta di “spinta” in senso puramente fisico, in poche parole un bello spintone. Una spinta che ottenne ben altri risultati perché andò ad alimentare il desiderio interiore di andare avanti, di superare limiti ed ostacoli creati dalle convenzioni sociali, da un pensiero radicato che voleva le donne escluse dalla maratona perché ritenute non idonee a conseguire risultati che, così si credeva, solo gli uomini potevano ottenere.

Il bersaglio della famosa spinta fu Kathrine Switzer (5 gennaio 1947) la prima donna che corse, nel 1967, la Boston Marathon in 4 ore e 20 minuti.

Kathrine Switzer

La Boston Marathon si disputa tutti gli anni dal 19 aprile 1897, ed esattamente il terzo lunedì di aprile durante il Patriot’s Day, la tradizionale festività del Massachusetts che celebra l’inizio della rivoluzione americana. Negli anni ‘60 le donne non erano ammesse a questo evento sportivo perché giudicate inadatte a correre lunghe distanze, quindi – anche se può sembrare assurdo – non era permesso loro di iscriversi. Kathrine Switzer non la pensava così. La sua partecipazione scatenò un autentico putiferio: una battaglia di spintoni. Fatti che sono passati alla storia perché rovesciarono la tradizione maschilista di questo evento e del mondo sportivo in generale.

Questa è la sua storia.

Sin da giovanissima Kathrine ricevette “spinte” appropriate. A dodici anni, come tante adolescenti americane, voleva fare la cheerleader; era un modo per farsi notare e magari rimediare, con un po’ di fortuna, nientepopodimeno che un appuntamento con il capitano della squadra di football della scuola. Quando espresse il proprio intento ai genitori essi reagirono in modo veramente inconsueto per l’epoca; il padre le fece notate che nella vita bisogna essere attori e non semplici spettatori, quindi era molto meglio praticare uno sport ed avere qualcuno che facesse il tifo per lei. Incoraggiata da entrambi i genitori a sottrarsi al ruolo tradizionalmente assegnato ad una donna, Kathrine cominciò a giocare ad hockey su prato e poiché amava correre, scelse questo tipo di allenamento per poter essere in forma per lo sport che aveva scelto di praticare. Nel 1959 nessuna ragazza andava a correre per strada, nessuna ragazza correva 3 miglia al giorno! Ma lei sì.

Quando si iscrisse al Lynchburg College, in Virginia, continuò a giocare ad hockey su prato, ma l’atteggiamento delle sue compagne di squadra la indispettiva: a loro non interessava lo sport e vincere o perdere non aveva alcuna importanza, Kathrine invece prendeva tutto molto sul serio. A quei tempi, ancora giovanissima, oltre il consueto allenamento di hockey andava a correre ogni giorno. Questa sua abitudine fu notata dal coach della squadra maschile di corsa il quale le chiese se era disposta ad allenarsi con il suo team avevano bisogno di un altro elemento per poter partecipare ad una gara importante e lei faceva esattamente al caso loro. La giovane Kathrine non se lo fece dire due volte. Quando si venne a sapere che una ragazza avrebbe fatto parte della squadra maschile, nel College – roccaforte del pensiero cattolico – si scatenò l’inferno. Una donna osava correre con gli uomini! Era un autentico scandalo. Kathrine stava sfidando le convenzioni sociali, si spingeva al di là di limiti ben precisi, apertamente, per cui si guadagnò persino qualche non proprio velata minaccia scritta. Ricevette alcune lettere in cui si diceva che Dio l’avrebbe fulminata per aver osato tanto! Sembra un episodio da caccia alle streghe, ma negli anni ’60 anche negli Stati Uniti era impensabile per una donna intraprendere la carriera sportiva in discipline che erano indiscusso territorio maschile.

Dopo questo episodio, con grande rammarico, Kathrine Switzer si rese conto che dopo il College l’unica strada in ambito sportivo che poteva intraprendere era quella del giornalismo. Scrivere era un’altra sua passione, così si iscrisse all’Università di Syracuse decisa a realizzare il suo sogno: se non poteva diventare un’atleta, sarebbe diventata una giornalista sportiva. Correre era il suo primo amore, il momento magico delle sue giornate, la sua arma segreta. E così, anche all’università continuò con il suo personale allenamento giornaliero, anzi una volta a Syracuse chiese di essere ammessa agli allenamenti del team maschile… almeno sino a quando non ci fosse stata una squadra femminile, cosa che lei sperava un giorno potesse accadere. Kathrine racconta che il coach la fissò interdetto per alcuni secondi, quindi esordì: “E’ da 30 anni che faccio l’allenatore e mai prima d’ora una studentessa mi aveva rivolto una simile richiesta. Non posso farti partecipare alle gare perché è contro il regolamento, ma sei la benvenuta.” Fortuna? Forse. Molto più probabilmente la determinazione di Kathrine incontrò la sensibilità di qualcuno che non dava alla parola “sport” un genere femminile o maschile.

Nel 1966 Kathrine incontrò una persona che fu determinante per il suo futuro: Arnie Briggs, il postino dell’Università, un maratoneta che aveva già partecipato a ben 15 edizioni della Boston Marathon. Apprezzandone la determinazione e le capacità l’uomo non esitò a porre Kathrine sotto la sua ala protettrice e ne divenne il mentore. A soli 19 anni la Switzer era una ragazza determinata e coraggiosa. In inverno, quando i ragazzi si allenavano al chiuso, poiché a lei non era concesso stare con loro, correva per 6 o 10 miglia ogni sera, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche. Fu durante una di queste corse serali, una sera particolarmente fredda e nevosa, che espresse ad Arnie Briggs il desiderio di partecipare alla Maratona di Boston: se riusciva a correre per 10 miglia poteva correrne tranquillamente 26. Inizialmente l’uomo non prese sul serio l’intenzione della ragazza: la Boston Marathon era preclusa alle donne, la sua era una richiesta a dir poco inconsueta. Ma davanti alla determinazione di Kathrine si arrese: se c’era una donna in grado di correre la maratona, beh, era lei.

Il primo passo era fatto: Kathrine aveva un coach ed un traguardo ben preciso da raggiungere. Lavorò duramente, faticò, fu difficile, ma infine riuscì a coprire la distanza di 26,2 miglia. Non soddisfatta e poiché voleva essere assolutamente sicura, aggiunse altre 5 miglia.

Quando venne il momento di iscriversi la Switzer pensava di farlo in forma anonima come aveva fatto un anno prima Bobbi Gibb, ma Arnie contestò la sua scelta: quella era una gara seria e lei era un’atleta seria, quindi avrebbe fatto una regolare iscrizione. Così fu. Si registrò come “K.V. Switzer” perché aveva sempre firmato così; sin da bambina voleva diventare una scrittrice e firmarsi con le sole iniziali del nome come facevano autori conosciuti le era sempre sembrato molto stravagante. Quella era semplicemente la sua firma e la cosa passò totalmente inosservata.

Una sera, pochi giorni prima della gara, disse al suo ragazzo, Tom Miller, che si era iscritta alla Boston Marathon; la notizia suscitò l’ilarità del ragazzo: se lei riusciva a correre per oltre 26 miglia, beh, l’avrebbe fatto anche lui, non gli mancava certo il fisico considerati i suoi 106 chili. Era o non era un lanciatore di martello? Aveva forza da vendere. Per dimostrarglielo corse, quella sera stessa, per ben 9 miglia dichiarando subito dopo che a quel punto anche lui era pronto. Fu così che Kathrine, Arnie e Tom Miller partirono per Boston.

La Swtizer ricorda che il giorno della gara il tempo era pessimo: nevischiava, tirava vento e faceva freddo. Quando indossò la pettorina con il numero molti corridori intorno a lei notarono che era una donna e si congratularono, ciò fu estremamente eccitante e lei ne fu felice: stava facendo la cosa giusta. Kathrine, Arnie, Tom Miller e John Leonard, un compagno di università, formavano un piccolo gruppo: il loro piano era di rimanere uniti, ma se qualcuno voleva staccarsi dai compagni si sarebbero rivisti al traguardo. Un pullman di giornalisti seguiva i concorrenti e a bordo vi era il direttore di gara Jock Semple, a tutti noto per il suo temperamento rissoso. I concorrenti avevano percorso quattro miglia quando i fotografi si accorsero che una donna stava correndo in mezzo ad una moltitudine di uomini e cominciarono a gridare: “C’è una ragazza!”, quindi si precipitarono di fronte al gruppo e cominciarono a scattare foto. Kathrine era così orgogliosa di se stessa con la capigliatura svolazzante e quel velo di rossetto che per fortuna non aveva dimenticato di mettere!

Jock Semple, indignato, balzò giù dal pullman e, furioso, le corse dietro. L’afferrò per le spalle e la spinse con il chiaro intento di gettarla da parte, urlando: “Vattene dalla mia gara e dammi la pettorina!”. Kathrine si spaventò a morte e cercò di sottrarsi a quell’assalto, ma lui la tratteneva per la maglia. Era un incubo.

Kathrine spintonata da J.Semple - Arnie e Tom intervengono

 

Kathrine Switzer viene spinta da Jock Semple, Arnie Briggs cerca di allontanarlo

Kathrine viene difesa anche dal Tom

Arnie Briggs cercò di spingerlo via, ma fallì, allora Tom, il suo ragazzo di 106 chili – il lanciatore di martello – lo placcò, letteralmente, facendolo finire a gambe all’aria. Avere un fidanzato forzuto è veramente un’ottima cosa!

In un primo momento Kathrine pensò che lo avesse ucciso, era scioccata e non sapeva cosa fare, ma Arnie le urlò: “Run like hell!” e lei lo fece. Il resto è storia.

La sua partecipazione alla maratona del 1967 passò come non ufficiale nonostante la Switzer avesse ottenuto un tempo di 4:20:00, ma la vicenda fece comunque il giro del mondo. Per Kathrine Switzer quello fu un autentico trampolino di lancio: quella spinta brutale e la delusione di non essere stata riconosciuta ufficialmente come partecipante alla maratona le diedero l’input di andare avanti per abbattere tutte le barriere che si frapponevano fra lei e la realizzazione del suo sogno. Usò la propria esperienza per fare in modo che le donne che volevano partecipare a quel tipo di competizioni non incontrassero gli ostacoli che aveva incontrato lei. La prima cosa che fece fu creare all’Università il Syracuse Track Club ed incoraggiare le altre ragazze a farne parte: voleva fare in modo che le donne fossero completamente accettate ed ammesse nel mondo dello sport. Partecipò altre otto volte alla Boston Marathon, poi, finalmente, arrivò la vittoria: nel 1974 vinse la competizione con un tempo di 2:51.

Kathrine Switzer divenne giornalista sportiva, tutt’ora è commentatrice televisiva, esperta di fitness e scrittrice, nella sua carriera ha creato programmi in 27 Paesi che hanno portato all’inserimento delle donne nella maratona delle Olimpiadi, cambiando per sempre il mondo dello sport. Il suo riscatto personale è il riscatto di milioni di donne. Se oggi le donne possono giocare a calcio, a basket e persino a rugby lo devono anche a lei; quella spinta brutale si è moltiplicata in infinite spinte che ci hanno fatto balzare in avanti aprendoci le porte di sport che erano roccaforti maschili, dandoci la possibilità di misurarci con noi stesse, dandoci l’opportunità di dimostrare un aspetto sconosciuto della nostra femminilità.

“Nella vita ho avuto fortuna. I miei genitori ed Arnie mi hanno sempre detto che potevo fare qualsiasi cosa. Come donna non mi sono mai accontentata di giocare con le bambole o fare solo la cheerleader. Sì, mi piaceva giocare con le bambole od indossare bei vestiti, ma mi divertivo anche ad arrampicarmi sugli alberi e a fare sport. Dopo la mia esperienza a Boston, capii che vi erano milioni di donne al mondo che erano cresciute senza credere di poter superare i limiti a loro imposti. Volevo fare qualcosa per migliorare le loro vite. Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio di credere in noi stesse ed andare avanti passo dopo passo.”

E’ vero, nulla è impossibile.

 

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